DAL P.R.G. AL R.U.C. FINO AL P.I.T., un bel tipo detta sempre legge L’influenza della riduzione tipologica nell’interpretazione della realtà
Leonardo Mannini
Quando si tenta di misurare l’uomo, i conti non tornano mai. Blaise Pascal
Nel nostro attuale modo di agire siamo tutti figli della modernità. Il concetto di classificazione oggettiva delle cose è il frutto di un processo storico che ci appare, a distanza di secoli, come scontato e ineluttabile, e finisce per condensarsi in uno dei capisaldi irrinunciabili della pratica di sempre: la tipologia. La scelta di quale tipologia usare tra le tante possibili per catalogare un sistema complesso determina, a priori, una lettura così variabile di uno stesso dato che rischia di rendere ideologico qualsiasi tentativo di codificazione. L’ideologia è sempre in agguato quando si comincia a teorizzare, questo è il problema. Si intende qui per ideologia il suo significato più profondo: quando l’osservazione di un fattore particolare del reale, magari vero, sacrosanto, viene assunto come valore di spiegazione totalizzante del fatto analizzato. Per la verità il tentativo di dare un ordine all’esistente tentando di classificare le sue parti è sempre stata una necessità per l’uomo, che ne ha bisogno soprattutto per capire e quindi agire. In architettura questa tendenza comincia a manifestarsi con una certa continuità teorica nel rinascimento, con la pubblicazione dei Trattati. Queste prime pubblicazioni tentavano di regolare le proporzioni degli ordini architettonici, i quali servivano sostanzialmente a garantire il rispetto dell’armonia universale, mettendo a punto il giusto rapporto dei singoli elementi con il tutto. Il canone diventa in poco tempo il riferimento per eccellenza, l’elemento costitutivo, invariante, il ‘tipo’ a cui deve attingere il modello di ciascun ordine: seguire la norma garantisce la perfezione della bellezza raggiunta dai greci e dai latini, Leon Battista Alberti docet, Palladio perfeziona.
Ben presto le maglie strette delle regole invitano gli architetti ad affermarsi con delle “licenze”, e tempo cento anni la riuscita dello scostamento rispetto alla norma determina la cifra stilistica di un’opera meritevole. Tutto il nostro manierismo, (Ammannati, Buontalenti, Giulio Romano, ma anche lo stesso Michielangelo, solo per dare alcuni riferimenti) è caratterizzato da questa volontà di distinzione dalle norme universali per affermare “un di più” individuale. Il passo successivo prevede un ulteriore contorsione, con il sovvertimento del canone, la semplice deviazione non è più sufficiente: con grazia, ma occorre infrangere il codice per diventare famosi, e si arriva al barocco, con Bernini, Borromini, Pietro da Cortona.
Porta delle Suppliche, Bernardo Buontalenti
San Carlo alle quattro fontane, Francesco Borromini
In realtà è una parabola senza soluzione di continuità, è solo il processo di maturazione ma anche invecchiamento del pensiero dell’umanità. La regola si può perciò destabilizzare, a patto che sia sempre universalmente condivisa - e nel barocco è ancora così - altrimenti la trasgressione non può essere percepita tale. La corda, capite bene, diventa sempre più tesa e il tiro della storia si carica della pressione del ragionamento. La pretesa di un’assolutizzazione estetica dei codici dell’architettura in termini classici formulata a partire dal 1450 condurrà, nel giro di poco più di duecento anni, a far maturare una disputa epocale in seno al mondo occidentale: il luogo è il baricentro della cultura in quel periodo, la corte del re di Francia, Luigi XIV; in ballo la concezione di bellezza, argomento certamente non secondario per chi opera, da sempre, nel campo dell’arte. E’ una querelle decisiva, un vero e proprio punto di rottura; da quello strappo nascerà il nostro comune modo di pensare: si può essere bianchi o neri, centrosinistra o centrodestra, buoni o cattivi, ma la radice del pensiero moderno rimane quella. Mi spiace per chi pensa di essere diverso, in questo non ci sono tra noi differenze sostanziali.
In estrema sintesi la controversia vede contrapporsi due grandi architetti del periodo, legati entrambi all’Accademia reale appena fondata: François Blondel e Claude Perrault. La disputa è in punta di fioretto, ma feroce; il primo, che è anche un esimio docente, tenta ancora di difendere l’imitazione degli antichi come garanzia di perfezione, almeno a parole, Perrault introduce per la prima volta un doppio concetto di bellezza che produrrà effetti deflagranti: una bellezza positiva legata alla corretta disposizione dell’edificio, alla corrispondenza delle parti tra loro e alla qualità impiegata nell’opera, ancora riconducibile a dei canoni autorevoli fissati dagli antichi, e una bellezza arbitraria, soggiacente il buon gusto dell’architetto, non più dipendente dall’oggettività del modello, in grado di contrastare la corruttibilità della sensibilità umana. Il colpo è assestato e nello scafo della storia si aprirà una falla che ben presto affonderà tutti gli assunti e le certezze sull’armonia del cosmo e sulla ragione estetica dei secoli precedenti. La naturale conseguenza, dopo ancora cento anni, sarà l’affermazione del secolo dei lumi con la Rivoluzione, la tabula rasa riguardo la fede in qualcosa e le teste mozzate. Niente arriva mai a caso.
Proprio in quel periodo si afferma l’allievo preferito di Boullée, Jacques-Nicolas-Louis Durand, il più autorevole insegnante di architettura del suo tempo. Non erano passate due generazioni di architetti che già sembrava insignificante la disputa alla corte del Re Sole, da cui nasceva tutto ma oramai considerata dai più puramente teorica, tanto era stato eraso l’impeto umano verso la soluzione di un problema ideale. Infatti la prima bellezza si era tramutata in metodi certi e pragmatici di codificazione, la seconda era ormai una questione solitaria di gusto personale, con il disincanto sopraggiunto riguardo al ruolo riservato ad esso: ognuno ha il suo. Necessitava una comune base razionale di ancoraggio delle idee; le formulazioni di Durand fondarono di fatto la tipologia: “come i muri, le colonne, ecc., sono gli elementi di cui sono composti gli edifici, così gli edifici sono gli elementi di cui sono composte le città”. Come afferma Aldo Rossi nel suo L’Architettura della città “questo processo di riduzione è un’operazione necessaria; e non è possibile parlare di problemi di forma ignorando questi presupposti [tipologici n.d.r.]. In questo senso tutti i trattati di architettura sono anche dei trattati di tipologia e nella progettazione è difficile distinguere i due momenti”. Quel che ci interessa sottolineare è che questo processo storico - che arriva a noi senza ulteriori sostanziali evoluzioni se non il disincanto - determina una riduzione pratica che proviene addirittura dal concetto di bellezza; il concetto razionale di tipo è avallato, affermato, sdoganato oserei dire, dal precedente supremo ideale. Gli illuministi intendono perciò appoggiarsi su basi solide considerando astratte le argomentazioni che non fossero solidamente pragmatiche, tanto da far assurgere al ruolo di dogma il basamento tipologico fondato sulla geometria. Quatremère de Quincy fornisce una definizione di tipo in opposizione al modello: “la parola ‘tipo’ non rappresenta tanto l’immagine di una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l’idea di un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello”. Siamo oramai nel corso del XIX secolo. E’ pur vero che una riduzione teorica della realtà provoca sempre dei rigurgiti in chi predilige la sottomissione all’esperienza dei fatti. Soprattutto quando si parla di fatti urbani.
Camillo Sitte, l’architetto urbanista austriaco morto agli inizi del ‘900, pur essendo di formazione tecnica, ne “L’arte di costruire la città” si accorgeva che “tutti questi sistemi [tipologici, n.d.r.] hanno un valore nullo; [...] importante è solo ciò che può essere abbracciato con lo sguardo, ciò che può essere visto: dunque, la singola strada, la singola piazza”. In buona sostanza ciò che può essere esperito. E siamo a noi in men che non si dica. Chi oggi metterebbe in discussione un qualsiasi progetto urbano, di indirizzo o di governo - come si dice oggi - si chiami Piano Regolatore, Regolamento Urbanistico, Piano Strutturale o Piano di Indirizzo Territoriale che si voglia che si appoggi e si fondi sostanzialmente su modelli pragmatici di riferimento eminentemente tipologici? Nessuno, perché i polmoni si confanno al tipo di atmosfera che devono respirare; il brodo di cultura nel quale siamo stati allevati è questo e la riduzione tipologica ci appare naturale. Diciamo tutta rispettosa della parabola storica nella quale siamo inseriti. Per la nostra mentalità “moderna” forse è l’unica oggi concepibile. Il problema, a questo punto, diventa tutto e solo ideologico, ovvero riguarda la decisione e la scelta di quali riduzioni operare, perché di questo si tratta, stabilendo quali fattori devono rappresentare la totalità di una realtà presente (urbana o rurale che sia, e questa è già una classificazione che divide e ogni divisione implica quasi sempre una riduzione teorica) o di un’ipotesi futura, cioè progettata. Una serie di tipizzazioni, anche gerarchiche, non potranno mai esaurire la complessità del reale e l’obiettivo parziale lascerà sempre fuori alcuni aspetti. Il recente lavoro eseguito per il Piano di Indirizzo Territoriale a livello regionale è molto eloquente in questo. I malumori che sta suscitando in alcune categorie sociali (dai vignaioli alla rete delle professioni tecniche) derivano dall’inadeguatezza delle riduzioni tipologiche operate rispetto alla totalità dei fattori che vorrebbero comprendere. È normale che uno ci stia stretto. Ma esiste un approccio migliore, che non sia così ideologico nelle distinzioni di specie?
Partiamo da un esempio piuttosto conosciuto a livello cittadino, utile per capire la questione: lo strumento di governo del territorio locale oggi si chiama Regolamento Urbanistico e si affida nella sua definizione a certe riconoscibilità tipologiche del territorio. Si stabilisce, nel caso di specie, per esempio Sesto Fiorentino, ciò che è suolo urbanizzato da ciò che non lo è;
Estratto Tav.1 del secondo R.U.C. di Sesto Fiorentino. Articolazione del Territorio
Estratto Tav.2 del secondo R.U.C. di Sesto Fiorentino Elementi di interesse storico. Ogni edificio è mappato con una precisa tipologia a partire dalla cellula strutturale
all’interno dell’area urbana si stabiliscono due zone, un prima considerato tessuto storico, e un dopo considerato tessuto recente, giudicando sostanzialmente la prevalenza dell’età delle costruzioni ad una certa data per separare il primo dal secondo (il margine non sembra degno di particolare interesse, almeno sulla carta, e non è tipizzato); all’interno del primo si individuano dei tipi edilizi, in qualche caso classificati in base alla presenza e numero dei muri portanti racchiudenti uno spazio chiamato cellula; la classificazione varia nel numero in modo che possa ragionevolmente rappresentare l’insieme dei fabbricati costituenti il nucleo urbano; infine all’interno del tipo si regola ciò che è ammissibile nel suo piccolo, al fine di conseguire capillarmente e organicamente il progetto finale di città che si vuol ottenere nel futuro. Abbiamo scelto, per semplicità, solo una delle possibili letture in profondità dello strumento di governo. E’ chiaro che dalla sequenza di riduzioni tipologiche stabilite si capisce in filigrana l’indirizzo della regolamentazione. Quel che qui si vuol sottolineare è che un controllo di un territorio attraverso l’uso della tipologia rimane magari qualcosa di inevitabile, vista la nostra storia occidentale, ma sempre alquanto imperfetto, quindi pericoloso, da maneggiare con cura a dirla bene, sapendo a questo punto che la classificazione tipologica ha soppiantato i codici propri della bellezza oggettiva prerazionalista: è la garanzia di qualità estetica soprattutto che preoccupa; Camillo Sitte l’aveva intuito.
Nel concreto il progetto di città che Sesto Fiorentino produce con questa serie di riduzioni tipologiche conduce alla vigilanza ferrea dello status quo, maglie molto strette di filtro perché niente rimanga fuori controllo a livello centrale, lo sviluppo demandato alla “pianificazione”, parola che da sola merita una trattazione a parte. In verità è la Regione Toscana che vuole così. L’assunto in buona sostanza, da prendere con il beneficio dell’estrema sintesi, diventa: “abbiamo raggiunto una condizione urbana difficilmente modificabile in meglio, controlliamone il mantenimento rigoroso per non peggiorarne l’identità, e riduciamo i margini di manovra dell’azione dei cittadini ai minimi termini in quanto difficilmente controllabile come work in progress. L’affermazione può sembrare, e lo è, certamente parziale e lacunosa, (mancano gli importanti obiettivi di qualità, che potrebbero sintetizzarsi in un puzzle di verde pubblico e parcheggi e la permeabilità del tessuto attraverso visuali collinari e percorsi lenti) ma dipinge la finalità inconscia espressa dalle riduzioni tipologiche prescelte in partenza. Si dirà, beh, che c’è di strano, non è normale? Esemplare il novero delle schede urbanistiche previste nel RUC che intendono trasformare il territorio: pur di mantenere il controllo dello sviluppo futuro, rinunciando anche a progetti potenziali di eccellenza magari raggiungibili in fase di “cambio di scala”, si è preferito non dare flessibilità di manovra nella progettazione urbana ai privati e fissare un’ipotesi sommaria a livello grande, urbanistico, che determinerà inesorabilmente il risultato finale a livello piccolo, architettonico. Mancando la fase intermedia che è sempre una scala non solo di misura ma relazionale, se la trasformazione non produrrà esiti geniali o maggiormente corrispondenti per quel brano di città, pazienza: lo standard sarà comunque garantito. Lo standard come garanzia di qualità, e con questo torniamo a Durand, ma con tutti gli acciacchi della vecchiaia. Lo standard come equivalente estetico, surrogato del surrogato della bellezza positiva. Il resto è demandato al gusto di ciascuno, quindi, giustamente, non può contare. Il problema dunque oggi, a distanza di secoli, non può fondarsi sul concetto di bellezza. Impossibile. In questa sede sarebbe sufficiente affrontare però quello di fiducia reciproca. Viviamo nella divisione manichea della struttura sociale: i custodi del bene pubblico, diciamo i preposti al governo illuminato (e l’aggettivo ha semplicemente un riferimento storico) proteggono il territorio dal caos e dal depredamento del singolo, altrimenti inevitabile. La mentalità che si appoggia a determinate scelte tipologiche di provenienza razionalista deriva da questo atteggiamento di salvaguardia. Scelta corroborata magari dalla nostra storia recente, costellata di scempi al bene comune e di sopraffazioni territoriali, vedi abusivismi. Non c’è niente di normale dunque nella nostra concezione di territorio, una sorta di governo d’emergenza permanente poggiato sull’ordinaria amministrazione, in attesa di un risveglio delle coscienze, di là da venire, con l’avallo dell’analisi tipologica. Ma siccome il bene comune non si gestisce per regolamento comunale e non è garantito con l’identità desunta dal tipo, perché nasce per osmosi dalla coscienza di una comunità, cioè dal basso, dalle famiglie, è come se ci condannassimo da soli ad una inesorabile ingessatura, unica possibilità di tenere insieme ciò che sembra diviso. Cosa è il PIT se non questo?
Eppure il Comune e il bene comune una volta non erano divisi, anzi erano sinonimi, non c’era differenza tra il governo e il sentire popolare: l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nella sala dei nove del palazzo comunale di Siena lo dimostra in modo commovente. Ma era ancora medioevo. Oggi si vive una dicotomia così marcata che la somministrazione di regolamenti come il nostro appaiono, per chi ne ha coscienza, medicina molto amara, non sono certo il frutto e l’espressione di una cultura fiorente, solo la contromossa di un’azione difensiva. Un atteggiamento così, specchio del nostro declino progressivo, non può che essere il sintomo di conseguenze nefaste: oggi Sesto Fiorentino è meno ospitale di 10 anni fa. Il trend allarma perché 10 anni fa era una città peggiore di 20 anni fa. Potremmo dire che tutto questo rigore dettato dal controllo ferreo e da regole stringenti non è stato sufficiente a generare qualità e prosperità: ha semplicemente evitato il peggio, la deturpazione e il consumo indiscriminato di suolo (la grande paura di oggi, vissuta come contrappasso rispetto alla speculazione selvaggia priva di cultura urbana degli anni del boom economico). È sufficiente? L’uomo non è fatto per deperire accontentandosi. Qualcosa si potrebbe ancora fare: non è guardando dal buco della serratura che si mantiene il controllo del territorio. Riduzioni tipologiche che arrivano alla “cellula” è come marcare la prigione alle intenzioni dei privati. L’utilizzo della tipologia edilizia ha senso se si ottengono riscontri efficaci a livello di fruizione comune, quanto meno a livello di fruizione identitaria, altrimenti rimane solo regola di base sclerotizzata. La percezione della gradevolezza di una strada, o le pareti urbane di delimitazione di uno spazio pubblico sono solo in parte determinate dal tipo edilizio. Si continua a ragionare ancora attraverso la definizione dei “pieni”, come la buona regola urbanistica, praticata da generazioni di professori universitari, esige a partire dal secondo dopoguerra. Le tavole urbanistiche più importanti di regolazione dei fatti urbani rimangono sempre tavole tipologiche riferite a volumi costruiti, non a ciò che sono in grado di definire con il loro “manto del racchiuso” (la definizione è presa a prestito da Boris Podrecca).
Ne è riprova il verde pubblico irregolare. Sempre frutto di un ritaglio, di un rimasuglio di parti costruite nel tempo della lottizzazione selvaggia. Uno “scarto” diventato verde e rimasto a macchia di leopardo che non si appoggia mai su margini opportunamente costituiti. O semplice superficie acquisita per fare quantità quando sono frutto di pianificazione. Le tavole più importanti di un progetto urbano (o regolamento che dir si voglia) potrebbero sicuramente fondarsi dunque, all’opposto, sulla considerazione delle proporzioni pubbliche dello spazio aperto, vie come lunghi corridoi, piazze come stanze di una grande casa a cielo aperto. Dovrebbero fondarsi non sulla tipologia edilizia ma sul concetto di margine, che è sempre definito almeno da uno spazio aperto, mai da un “pieno”. Le superfici verticali possono essere riconosciute in questo modo come risorsa, non costituiscono più problema cementificatorio, a patto di generare densità e non dispersione, regolare una sempre maggiore compattezza e non consumo esterno. Quando hai regolato lo spazio aperto, il pieno è solo conseguenza, se invece ti concentri e regoli il pieno, quello che rimane è solo un ritaglio. Magari un altro modo di interpretare e regolamentare la città nel XXI secolo è possibile: semplicemente attraverso la definizione morfologica dei “vuoti”, che sono quelli veramente vissuti dalla gente e definiti dalla presenza dei pieni. Questi – per non perdere il vizio razionalista - potrebbero essere tipizzati dalla proporzione e qualità di “parete” che possono generare, non dalla “cellula” che – quando non è biologia – suscita sempre un suono sinistro. Nessuno l’ha ancora fatto. Se un singolo vive in un edificio, grande o piccolo che sia, e nel rispetto delle regole non capiamo perché controllare dove ha il vano scala in casa, il popolo respira certamente nella piazza, nella strada, nei giardini pubblici, ma anche nei bar, nel circolo, nel mercato. Ci piacerebbe ancora dire sull’arengario o sul sagrato. Di sicuro nel luogo degli scambi commerciali. Regoliamo la città da ciò che può essere abbracciato con lo sguardo e vissuto dalla comunità, vi ricordate Sitte? Purtroppo oggi il principio di governo del territorio si ispira più agli articoli della legge che a quelli della Costituzione. Desidereremmo ardentemente il contrario. È “solo” un problema culturale, di tutti. A questo punto non sappiamo se di “tipologite” riusciremo a guarire in tempi brevi: la sindrome viene da lontano come abbiamo visto, ci ha preso le ossa ed ha il sopravvento. E’ già tanto se capiamo di esserne ammalati.
Facciata
di Santa Maria Novella, schema geometrico compositivo basato sui rapporti
musicali, Leon Battista Alberti
Facciata orientale del Louvre "La collonade" (1666-70) Claude Perrault con Luis Le Vau
dai Précis des leçons d'architecture (1802-1805) Jacques-Nicolas-Louis Durand
Studi di piazze medievali Camillo Sitte
Estratto dall'allegato 2 linee guida per la riqualificazione paesaggistica dei tessuti urbanizzati della città contemporanea del P.I.T. adottato con valenza di piano paesaggistico
Estratto da una scheda dell'Appendice 1 del secondo R.U.C. di Sesto Fiorentino
Particolare degli affreschi del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena 1338-39 Ambrogio Lorenzetti La figura più grande rappresenta il bene comune ma anche il Comune, Siena
Sesto Fiorentino - foto aerea - verde senza margini, si nota il retro delle case